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Bancarotta anche per consulenti ed estranei

Bancarotta anche per consulenti ed estranei

La sentenza n. 33774/2015 della Corte di Cassazione si sofferma su molteplici profili di interesse in relazione al diritto penale fallimentare
/ Giovedì 06 agosto 2015
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La sentenza n. 33774/2015 della Corte di Cassazione, oltre a fornire le prime importanti indicazioni in ordine ai riflessi della recente riforma del reato di false comunicazioni sociali, si sofferma su numerosissimi profili penali fallimentari che si ritiene opportuno sintetizzare.
Si ribadisce, innanzitutto, come, mentre è certamente consentita l’opera di consulenza e di intervento svolta da un avvocato o da un consulente contabile a favore di un imprenditore o di una società in dissesto, deve invece ritenersi illecito e penalmente rilevante il fatto del legale o del consulente che, essendo consapevole dei propositi dell’imprenditore, dia a questi consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o l’assista nella conclusione dei relativi negozi o svolga un’attività diretta a garantire l’impunità o che, comunque con il proprio aiuto e con le proprie preventive assicurazioni, favorisca o rafforzi l’altrui progetto delittuoso (. Cass. n. 49472/2013).
Ancora, si evidenzia come il reato di bancarotta impropria da reato societario, di cui all’art. 223 comma 2 n. 1 del RD 267/42, come riformato dal DLgs. 61/2002, sussista anche quando la condotta abbia solo aggravato il dissesto già esistente (. Cass. n. 17021/2013). Infatti, l’art. 223, per il tramite del richiamo all’art. 216, già contiene il riferimento testuale alla dichiarazione di fallimento, in assenza della quale i fatti incriminati dal medesimo articolo, in entrambi i suoi commi, non presentano rilevanza penale. Di conseguenza, la duplicazione del riferimento al fallimento non avrebbe alcun senso. Non è, peraltro, possibile tracciare un rapporto causale tra le condotte incriminate e la sentenza dichiarativa di fallimento. E, dunque, con la formula impiegata il legislatore ha voluto fare riferimento al fallimento in senso sostanziale ovvero alla situazione di dissesto nella quale la società si viene a trovare per effetto delle operazioni poste in essere dai suoi gestori. La situazione che viene in rilievo è il dissesto come effettivamente concretizzatosi al momento della formale apertura della procedura concorsuale, rimanendo irrilevante che, al momento della consumazione della condotta e della produzione dei suoi effetti, già fosse in atto una situazione di dissesto sulla quale la medesima condotta incide solo aggravandola.
Né rileva l’espresso riferimento, nel solo art. 224, all’aggravamento del dissesto. Ciò non solo perché il ragionamento a contrario lascerebbe irragionevolmente prive di sanzione penale condotte comunque incidenti sullo stato di dissesto. Ma, soprattutto, perché il dato testuale appare in contrasto con un’interpretazione sistematica che tenga conto della disciplina del concorso di cause di cui all’art. 41 c.p. (. Cass. n. 16259/2010) e perché la differente formulazione letterale sembra dipendere dalla redazione delle norme in tempi diversi; circostanza che può giustificare il mancato espresso richiamo in quella più recente all’aggravamento del dissesto, comunque sottinteso in base ai principi generali sul concorso di cause. Quanto al profilo soggettivo della fattispecie, poi, si ricorda che il dolo necessario presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi, però, non come intenzionalità di insolvenza, ma quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (. Cass. n. 42257/2014).
Nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, inoltre, il dolo è rappresentato dalla consapevolezza di dare ai beni della società fallita una destinazione diversa da quella dovuta sulla base della funzionalità dell’impresa, privando quest’ultima di risorse e di garanzie per i creditori (. Cass. n. 44933/2011). A fronte di ciò, in linea con le regole generali del concorso, non vi sono ragioni perché all’oggetto del dolo si debba attribuire contenuto diverso e più ampio in relazione alla posizione del concorrente estraneo. E, quindi, il dolo dell’extraneus si risolve nella consapevolezza concorrere nella sottrazione dei beni alla funzione di garanzia delle ragioni dei creditori per scopi diversi da quelli inerenti all’attività d’impresa – immediatamente percepibile dal concorrente estraneo, così come dall’imprenditore, come produttivo del pericolo per l’effettività di tale garanzia nell’eventualità di una procedura concorsuale – a prescindere dalla conoscenza della condizione di insolvenza.
La bancarotta fraudolenta per “dissipazione”, art. 216 comma 1 n. 1 del RD 267/42 – precisa ancora la Suprema Corte – si distingue da quella di bancarotta semplice per consumazione del patrimonio in operazioni aleatorie o imprudenti, di cui all’art. 217 comma 1 n. 2 del RD 267/42, sia sotto il profilo oggettivo, per l’incoerenza, nella prima, nelle prospettive delle esigenze dell’impresa, delle operazioni poste in essere, che sotto il profilo soggettivo, per la consapevolezza dell’autore della condotta, sempre nella prima ipotesi, di diminuire il patrimonio della stessa per scopi del tutto estranei ad essa (. Cass. n. 47040/2011).
Si ribadisce, poi, che la bancarotta fraudolenta per distrazione è reato di pericolo rispetto al quale non è necessaria la sussistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento (., tra le altre, Cass. n. 27993/2013 e Cass. n. 7545/2013; contra solo Cass. n. 47502/2012).

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